Scendere alla fermata. Per una Repubblica fondata sul modico lavoro
Quando fai questo mestiere e
non sei un fesso completo, una cosa almeno da subito la impari: che nessuna
idea è definitiva e menchemmai perfetta, perché tutte stanno sempre in coda
alla realtà e al buon senso. È l’hegeliana nottola di Minerva, ma porta
occhiali spessi come cocci e non vede oltre la punta del suo becco: questa la
scienza esatta e questi gli studi umanistici, confusi e inadeguati senza
apprezzabili distinzioni.
Così, col mio “6 politico” in
risposta alla demenza protocollare degli esamifici, mi illudevo di tenere in
tasca l’ovetto di Colombo, la panacea a ogni male, un’idea formidabile. Poi ti incontro
una collega al prato che mi ascolta pazientemente, annuisce per educazione, ma
sentenzia: “Io invece avrei fatto saltare l’intero anno scolastico. Previo rimborso
della retta, li avremmo intrattenuti in qualche modo e – a Dio piacendo – se ne
sarebbe riparlato a settembre. Tanto che fretta c’era?...”
Bum! Non all’istante, ma a
scoppio ritardato e dopo opportuna ruminazione. “Tanto che fretta c’era?”: questa,
la soluzione, altro che il 6 politico!; questa la rive/oluzione; e questa la
verità. Perché, di fretta, a ben vedere, non ce n’era affatto, ma neanche un po’;
come prima e neppure dopo per nulla al mondo, a dispetto del mantra
sull’esigenza indifferibile di correre che da un ventennio e passa è diventato
la litania ecumenica del centro-destra-sinistra-sindacal-confindustriale.
L’attesta il dato macroeconomico
di un mercato poco o punto ricettivo verso la manodopera giovanile, qualificata
o non poco importa. L’avvalorano i danni prodotti all’ecosistema dalla società
dei consumi. Ma c’è dell’altro e di più, in misura da autorizzare una
riformulazione accentuativa del quesito: “Tanto a che serve?...”
Certo che ne occorre di
coraggio per ammettere la propria inutilità. Ma, se non sai chi sei, non sai
neppure cosa vuoi e soprattutto non sei libero. Qui l’onestà o meglio la
consapevolezza non riguarda soltanto noi, cavalieri dell’inesistente, che da
tempo ce ne siamo fatti una ragione, pur confutando in pubblico l’opinione corrente.
Perché la vita ci ha insegnato che non basta conoscere Molière a menadito per
risparmiarsi avarizia, ipocrisia e ipocondria; e che neppure gli studiosi di
Flaubert sono immuni da quell’altra porcheria che è l’“Ammore”. Perché, ci
piaccia o meno, una partitone a Doom
può essere più esaltante delle Avventure
di Tom Sawyer. Perché un gatto
pulcioso fa più compagnia di un bel libro… e via discorrendo.
La letteratura non serve, nel
senso stretto del termine, come non serve tutto il resto o quasi: grande
scoperta del Coronavirus, prima e assai più del famoso anticorpo o del fantomatico
vaccino. Cambiamo canale e smettiamo di pendere dalle labbra dell’illustre
virologo imbonitore di turno (che, siccome non sa, farebbe meglio a tacere). Interrompiamo
anche l’euforia primaverile della riapertura e pigiamo Rew verso il bimestre della letargia. Fissiamo occhi e orecchie
sull’ibernazione che ha molte più cose da apprenderci. Ad esempio questa: eccettuati
un raggio di sole, un piatto di spaghetti, una mela, un bicchiere d’acqua, una
tuta sbrindellata e il tabacco per chi fuma, tutto il resto – ma proprio tutto
– si è rivelato inessenziale, superfluo, voluttuario. Tempo perso quello che
prima credevamo indispensabile, quello di cui, in giorni normali, proprio non
avremmo saputo fare a meno. Anche la moto e persino l’Iphone, coi gruppi
silenziati uno dopo l’altro, quando arrivavano a pioggia o cattive notizie, o
notizie false, o appelli toccanti, o cazzate a raffica.
Tutto il fuori – lo shopping,
la socialità, i viaggi, le cerimonie, lo svago e la cultura – non è mai valso
quel poco che era dentro. Sì che Montaigne, Cartesio e Pascal se n’erano già accorti,
e con largo anticipo su di noi e sul Coronavirus. Ma noi, grazie al
Coronavirus, ora sappiamo col riscontro della prova che era tutto vero e non
filosofia. Differenza non da poco, quando era scritto e ora è il tuo mondo. Un
mondo in cui, con buona pace dei pubblicitari, un jeans può durare dieci anni e
una macchina trenta specie se è ferma, il caffè della moka sveglia quanto il
Nespresso e il divano col fosso è accogliente come una culla; un mondo in un
tempo, strano a dirsi ma comunque umano, dove un pomeriggio trascorso a poltrire
è ottimamente speso, e persino la contemplazione del soffitto può rivelarsi attività
proficua. Mettici, poi, che tagliarsi i capelli da solo è più divertente delle
ciarle del barbiere. E che lavarsi con parsimonia non è più incivile, se te ne resti
a casa e gli altri indossano la mascherina (fermo restando che, a sentire zio,
“pe’ piace’ alle donne, l’omo ha ’dda puzza”).
Da qui e dalla millenaria
saggezza dei popoli, ora suffragata dall’evidenza stringente della ragion
pratica o dell’assuefazione, potrebbe con agio dipanarsi un elogio della
discesa o un trattato di economia politica sulle virtù della stagnazione. Ci ho
pensato, altro che!, quando, dopo pranzo, mi godevo il lusso inedito del
sonnellino; un peccato ormai veniale e democratico – la siesta – dacché Amish, Haredi, Sufi e Nordcoreani siamo tutti in
perfetto accordo che, per vivere così (e mica male!), basterebbero sì e no due
ore di lavoro al giorno. A tutt*, per tutt*, indistintamente. Due ore, e
neanche un minuto di più, per un nuovo statuto dei lavoratori che metta al
centro, non il lavoro, ma lo statuto: stare, arrestare, astenersi, desistere;
soddisfatta rarefazione del fare nella salubre apnea delle mascherine. Fourier con
un pizzico di Brežnev mantecati in
salsa ecologista. Ci pensi che bello! Possibile non averci pensato prima?
Ma al dunque, pensa che ti ripensa,
a forza di rimuginare o per effetto della digestione, le meningi si
distendevano e rallentava anche il respiro. Si stava così bene che quasi non si
stava più. Mi arrendevo al sonno e la scienza sociale con l’afflato lirico si assopivano
al mio fianco, senza più sveglia né ticchettii di cuore. Ne avevo bisogno e ne
avevo voglia. Finalmente rientravo, da dormiente, nella vita vera: cosa tra le
cose, se non proprio utile, di certo innocua. Tanto a chi servo? E che fretta avevo?
Se purtroppo non è vero che
nulla sarà più come prima (o forse sarà addirittura peggio), questo almeno ci
terrei a ricordarlo, dell’anno in cui venne il Coronavirus… e poi se ne andò
mentre io dormivo.
Commenti
Posta un commento