Il tempo al tempo del coronavirus






di  Luigi Marinelli

[n.d.r.: apriamo con questo intervento/meditazione, scritto il giorno di Pasqua, ma più che mai attuale in questi giorni di confino e di feste].

Oggi è Pasqua. Tempo di passaggio, rinascita, resurrezione a nuova vita.

Per questo, come tanti altri, penso a tutte le pasque della mia vita, soprattutto a quelle da piccolo, con mia madre indaffarata ai fornelli dai giorni prima e fin dalla mattina presto della festa.

Penso al tempo, e ripenso a un articolo che scrissi qualche anno fa[1] sull’onda intellettuale e affettiva della traduzione di un libro (Il mio secolo di Aleksander Wat[2]) che mi aveva accompagnato per mesi e mesi.

Scrivevo là:

tutto ha un suo tempo – dice l’Ecclesiaste (3, 1) – “Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”, e dopo la velocità il più delle volte individualistica ed egocentrica (se non proprio autistica) dell’odierna comunicazione telematica e digitale, fondata soprattutto sui sensi della vista e del tatto, penso che tutti prima o poi sentiamo il profondo bisogno della lentezza altruistica del tempo dell’ascolto, a partire da un senso – quello dell’udito – per sua natura dialogico, cioè impensabile senza la presenza di un Io e di un Altro, un Altro che io ascolto e mi ascolta; un Altro per il quale – come avrebbe detto l’immortale adolescente, il puer aeternus della poesia, Arthur Rimbaud – Je est un autre, “Io è un altro”. Un altro che posso quindi essere io stesso, come capita ad esempio al momento della lettura lenta e meditata di un libro (slow reading; per Nietzsche – langsam Lesen).

Oggi che siamo costretti, per motivi indipendenti dalla nostra volontà, a una vita prevalentemente digitale, distanziata, di stanza nelle nostre stanze più o meno corredate di gadget telematici, più o meno “connesse” col resto del mondo, oggi che tutti in massa stiamo reificando il “Viaggio intorno alla mia camera” di de Maistre, e che per obbligo di legge abbiamo tutt’intorno quel silenzio che spesso andavamo a cercare in campagna, o in montagna, o su qualche isola, schifando il chiasso e lo stress della nostra usuale quotidianità, ora che paradossalmente riscopriamo la struggente bellezza delle nostre città proprio grazie a immagini e riprese digitali trasmesse dai canali digitali delle nostre prigioni domestiche, sentiamo che qualcosa ci manca, sentiamo che non possiamo fare a meno del contatto visivo, olfattivo, acustico, tattile e del sapore degli altri, facilmente identificabili nella non-metafora del bacio e dell’abbraccio. Sentiamo finalmente nel modo più assoluto ed evidente che il mondo distanziato in cui ci siamo cacciati da ben prima del coronavirus è un mondo sbagliato, un carcere.

Forse anche per questo il buon gesuita che porta il nome di Francesco (lo dico senza nessuna ironia, vista la stima e la simpatia sincere che ho da sempre per l’ordine di sant’Ignazio) ha voluto che, nel theatrum mortis e nel silenzio davvero sepolcrale della piazza San Pietro completamente vuota, la via crucis papale di quest’anno la conducessero dei carcerati.

Torno allora al mio articoletto di anni fa che si intitolava Tempo del carcerato, tempo del moribondo, tempo dell’arte, dove scrivevo:

il racconto memoriale di Wat, nella seconda parte del libro fatto soprattutto di ricordi carcerari, si trasform[a] più volte in una riflessione di stampo filosofico sull’esperienza umana del tempo, giacché forse la dimensione del carcere, le quattro pareti di uno spazio sempre chiuso, senza nessuna possibilità di distinguere giorno e notte a causa della forte lampada sempre accesa in cella (l’occhio dell’NKVD come l’occhio di Dio), che – fino al riincontro con la moglie Ola – per mesi e mesi gli sottrae anche qualunque pulsione sessuale e sensazione dei colori[3], diventa una sorta di laboratorio di sperimentazione su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria psiche, di una specie di eternità coatta, in cui ogni istante, ogni ora, ogni giorno, ogni mese, ogni frazione minima o massima di tempo può essere percepita come uguale a se stessa, capovolgendosi – specie nei momenti di maggiore angoscia, disperazione o nostalgia – i normali parametri dell’attenzione alla vita, e quindi della percezione del tempo e delle percezioni tout-court.

Fatti tutti i dovuti distinguo (nessuno ora è davvero in prigione, nessuno è stato condannato da nessuno), quello che mi consta è che in certe notti il tempo mi si complica e si riavvolge: tornano ricordi lontani che pensavo completamente rimossi, tornano i morti, anche più di sempre – com’è ovvio – in questi giorni di festa.

Anche se nella prigione di lusso del “distanziamento sociale” del #iorestoacasa, ripeto quindi oggi la stessa conclusione a cui arrivai allora traducendo per tanti mesi il libro di memorie e di prigioni di Aleksander Wat, e cioè che leggere e scrivere del tempo in carcere può aiutare a capire e a spiegarci alcune cose fondamentali sul nostro rapporto con la temporalità e sulla dualità spazio/tempo, sulle quali spesso, troppo spesso, sorvoliamo – mi si perdoni il gioco di parole – per mancanza di tempo, a discapito di un suo uso più sano e creativo.

E l’agnizione primaria e fondamentale è che il “nostro tempo” non può che essere il “tempo degli altri” o – se si preferisce – il “tempo con gli altri”: è proprio in una condizione come quella della prigione – dice Wat – «che ti rendi conto che l’individuo non è autonomo, che sei parte di una simbiosi: quella in cui hai vissuto fino ad allora e dalla quale ora soffri la separazione, la mutilazione, lo smembramento» (A. Wat, Il mio secolo…, p. 147).

L’Essere è Esserci, presso e con gli Altri – avrebbe detto il filosofo che più, fra i contemporanei, si confrontò con questi concetti[4] – ed è quindi quello smembramento dalla propria identità profonda, fondata sul rapporto con l’Alterità, e in particolare con gli Altri che amiamo e che ci amano, ciò che causa il grave distacco del carcerato dalla vita e rende la sua percezione del tempo simile a quella del moribondo:

Quello che dicono dei moribondi […] che nel giro degli ultimi pochi minuti di vita rivedono come in un film tutta la loro esistenza, in carcere diventa davvero così. Non per la durata di qualche istante, ma per la durata di un tempo che si distende in quel modo indicibile, perdendo la propria consistenza. Al tempo bisogna attribuire una consistenza: il tempo in prigione è vuoto, bisogna riempirlo. E lo si riempie per l’appunto col film della propria vita, proiettandola più o meno a rilievo (A. Wat, Il mio secolo…, p. 296).

A questo punto non posso non pensare agli ultimi momenti di coloro che di questo virus sono morti e continuano a morire anche ora che il “picco” è passato”, spesso da soli, senza nessun conforto se non quello – nei casi migliori – di un po’ di morfina; penso alle fosse comuni di poveri cristi senza nome sull’Hart Island di fronte al Bronx, nella città e nella nazione più ricca del mondo; e alle case di riposo per i vecchi (questa pesante e inutile zavorra per le magnifiche sorti e progressive della nostra sempreverde società botulinico-ialuronica); penso ai bambini, quelli più piccoli, che di tutto questo non sanno niente, ma che ne risentiranno probabilmente per tutta la loro vita; penso ai migranti, che continuano a morire prima di raggiungere le loro “terre promesse”, e dei quali si è quasi del tutto smesso di parlare, perché non fanno più notizia (mentre il Senatore Salvini invocava sull’Italia la protezione del Cuore Immacolato di Maria, ce li ha ricordati con forza in questa settimana santa il succitato “papa comunista”, la cui lettera di questo giorno di Pasqua Ai fratelli e alle sorelle dei movimenti e delle organizzazioni popolari è uno dei testi più religiosamente umani mai scritti); e penso a tante altre cose, fatti e persone, in un turbine vorticoso di pensieri, ricordi, emozioni e affetti affastellati che è davvero difficile distinguere gli uni dagli altri.

E allora davvero:

il presente non è tanto un punto di contatto con la vita, ma è soprattutto funzione di un tempo ben più complesso che implica presente, passato e futuro – o meglio “presente del passato”, “presente del presente”, “presente del futuro” – come voleva il Sant’Agostino di Confessioni XI e De civitate Dei XI, cui tanto deve buona parte del pensiero contemporaneo, con alla testa la fenomenologia di Husserl che concepisce il tempo come “flusso di vissuti” (Erlebnisstrom) e dialettica complessa di “ritenzione del passato” e “protensione del futuro”, e dunque per certi versi non è che uno sviluppo epistemologico dell’ontologia del tempo di sant’Agostino. Nella prigione della Lubjanka Wat scopre infatti che:
La definizione [di Agostino] era dunque in perfetta consonanza con le mie esperienze, perché in effetti stavo vivendo al presente tutti e tre quei presenti. E in fin dei conti mi aprì gli occhi, e io stesso verificai che vivevo solo nel presente, ma in quelle tre dimensioni del presente, mentre invece alla Lubjanka non potevano esistere né un passato né un futuro puri e semplici (A. Wat, Il mio secolo…, p. 440).

Il carcere disvela a chi lo subisce tutta la dolorosa e grandiosa complessità e “impurità” del tempo umano, così come l’imminenza della morte può finalmente farci render conto del senso vero della vita, che è poi quello che l’arte cerca da sempre e per sempre di cogliere e “dispiegare” a noi passanti distratti.

Grazie al coronavirus stiamo forse riscoprendo tutti quanti che il nostro tempo è “impuro”, che non c’è un tempo nostro e un tempo degli altri, non c’è un passato, un presente e un futuro, ma si tratta di una cosa sola. Una cosa unica e irripetibile. Da amare e da difendere nella sua “totale” fragilità e dignità. Il tempo al tempo del coronavirus è per tutti un tempo confuso, un tempo “sbagliato” e quindi una perfetta metafora (“sbagliare il tempo”, metapherein chronou, dicevano i Greci), perché sbagliate sono le nostre vite, o meglio, il nostro atteggiamento verso la vita (e la morte). Se non la religione, l’arte, la grande arte, questo cerca di insegnarcelo e rammentarcelo da sempre, ma poi ce lo dimentichiamo, crediamo di poter essere noi i signori e padroni del tempo…

La vera pandemia contro cui forse non troveremo mai il vaccino è la cronica convinzione degli esseri umani di poter dominare e poter essere signori e padroni indiscussi del tempo, dello spazio e della natura.

Non è così. Quando e se mai lo capiremo, sarà davvero una nuova Pasqua.

12 aprile 2020



[1] Luigi Marinelli, "Tempo del carcerato, tempo del moribondo, tempo dell’arte. Attraverso Il mio secolo di Aleksander Wat", in AAVV, Il tempo degli altri, a c. di L. Marinelli, M. Mastrangelo, B. Ronchetti, Sapienza Università Editrice, Roma 2018, pp. 85-100.

[2] Aleksander Wat, Il mio secolo. Memorie e discorsi con Czesław Miłosz, a c. di L. Marinelli, Sellerio, Palermo 2013.

[3] La scoperta relativamente recente che l’”orologio interiore” umano, connesso ai cicli della luce e del buio, regoli anche la visione dei colori, non è che la prova scientifica di intuizioni assai più antiche, le stesse che portarono praticamente tutte le religioni e le lingue a identificare la divinità – a partire dall’etimo dei suoi nomi – vuoi con la luce, vuoi col tempo.

[4] «La quotidianità media dell’Esserci può quindi essere determinata come l’essere-nel-mondo deiettivo-aperto e gettato-progettante, per il quale, nel suo esser-presso il “mondo” e nel con-essere con gli altri, ne va del suo poter-essere più proprio» (Martin Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it P. Chiodi, Longanesi, Milano 1995, pp. 227-228).

Commenti

  1. Grazie, caro Luigi! Dell'idea a della condivisione.
    Grazie con un passo dai Ricordi di Marco Aurelio (Libro ottavo, 59)

    - Gli uomini sono nati l'uno per l'altro; conseguenza: o li rendi migliori con insegnamento oppure sopportali.

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  2. Molto bello e nostalgico, mi fa riflettere su quanto sia differente il nostro modo di sentire il tempo, uno stato interiore che ha poco a che fare con le ore dei giorni. Per me il tempo è lo scarto che si avverte tra la capacità di rivivere uno stato d'animo e l'impossibilità di ricrearlo realmente. Poco conta se rivolto al passato, al presente o al futuro, è il tempo stesso del pensiero che ci sfugge, l'esatto spazio atemporale che cesserebbe di esistere senza le tre variabili fondamentali della nostra vita.

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  3. Sì Luigi, si tratta di una cosa sola. Sto leggendo un libro molto interessante a questo proposito, del filosofo Emanuele Coccia, prima pubblicazione in francese, Rivages 2020:
    https://www.youtube.com/watch?v=AT7X_-9nfac

    Interessante perché affronta in un modo che, secondo me, molti poeti hanno indicato da tempo, sull'interconnessione tra le tutte le "forme" di vita sulla terra. "Siamo la farfalla di questa enorme bruco che è la terra, la vita come la conosciamo sulla Terra" - Noi siamo in grado di pensarla, questa metamorfosi e presenza intra e interspecifica, e quindi ne portiamo la responsabilità. Credo che

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