Riflessioni (e confessioni) di un tecnico help desk


di Riccardo Capoferro

Il momento in cui è stato decretato il lockdown ha segnato per alcuni l’inizio di una vacanza, per altri l’inizio di una stagione di difficoltà, ansia e forse indigenza, per altri, gli insegnanti, l’inizio di una mobilitazione (sedentaria) di massa, convulsa, scalcinata e post-apocalittica. Io ero tra questi, nella duplice veste di professore e di coordinatore – nella sostanza factotum – di corso di laurea, quindi responsabile insieme ai miei colleghi della transizione alla didattica on line. Ho cominciato a prendere confidenza con google meet e google classroom, a preparare powerpoint corredati di file audio (con slide via via più barocche, poi sostituite dalle lezioni in streaming) e a chiedermi con un manipolo di colleghi – una specie di unità di crisi – come organizzare le sedute di laurea on line e gli esami.

Non molto tempo dopo, data l’eccezionalità della situazione, mi sono trovato per la prima volta a presiedere una seduta di laurea: un misto tra un DJ, un maestro di cerimonie, un personaggio di Kusturica e un ufficiale anagrafico. Quasi tutto è filato liscio, nonostante i familiari che provavano a trattenersi clandestinamente nella stanza – una volta si è visto il lampeggiare improvviso del flash – e che in un caso estremo hanno fatto irruzione, festanti come al carnevale di Rio, incuranti dell’imbarazzo della laureanda.

Eppure c’era, a ogni discussione, un senso d’incertezza. I collegamenti on line non creavano un’atmosfera impersonale: tutt’altro. Ci portavano nelle camere degli studenti – a volte nascoste dall’inquadratura di una parete bianca o una porta a vetri a volte serenamente esposte – e ci restituivano immagini e suoni ora nitidi ora sgranati: i visi si congelavano – una visione a cui del resto già eravamo abituati – e le voci si spezzavano, svanendo, nei momenti più spaventosi, in una scarica di rumore bianco.

Nell’occhio del ciclone telematico, in quei giorni mi sono trovato a fare in modo più intenso quel che faccio già normalmente, il tecnico help desk. In realtà non ho competenze particolari. Faccio parte di quella generazione fortunata che ha vissuto con stupore, entusiasmo e spirito partigiano l’avvento del personal computer: ZX Spectrum vs Commodore 64, Commodore Amiga vs PC, Windows vs MacOS, e poi iOS vs Android.

Abbiamo visto le tecnologie digitali di massa crescere insieme a noi, abbiamo cominciato a usarle quasi subito (prima per giocare, poi magari per scrivere e poi per navigare su internet e comunicare) e forse per questo abbiamo sviluppato nei loro confronti uno sguardo partecipe, se non affettuoso. Anche se la loro complessità è incommensurabile, i computer non sono sfingi. Permettono un certo livello di interazione – a tal fine, del resto, sono stati ideati – permettono di “smanettare” (attività più degna del semplice “spippolare”) e di venire a capo di alcuni problemi, la maggior parte dei quali sono alla portata di chiunque abbia la voglia e il tempo di andare in cerca di soluzioni. Sono stati pensati per dialogare con noi, anche grazie al sistema a icone ideato all’inizio degli anni ‘80 dallo Xerox Palo Alto Research Center, perfezionato e diffuso da Apple e modificato da Microsoft (chi non conosce questa storia se la vada subito a leggere su wikipedia, per cortesia non la chieda a me).

Non tutti però hanno un simile rapporto con i loro PC o i loro telefonini. Alcuni guardano disorientati le icone senza capirne la funzione: non colgono il senso dei tre puntini disposti verticalmente a destra della barra inferiore di google meet. Non è stupidità: si tratta non di rado di persone in grado di sostenere feroci agoni logici o di homines fabri che riuscirebbero a smontare e rimontare una Cinquecento in dieci minuti. Altri invece, molti tra i quali sono studenti e studentesse della facoltà umanistica in cui lavoro, rifuggono la possibilità di cercare da soli una soluzione; si arrendono e cercano – piccoli e subdoli come remore – che qualcun altro gliela offra.

È per questo che il tecnico helpdesk si è trasformato in un inflessibile pastore puritano, pronto a cucire lettere scarlatte su chiunque facesse domande troppo ingenue. Dal momento del lockdown ho cominciato a umiliare – in fin dei conti affettuosamente – gli amici che ricorrevano al mio supporto, e a rimproverare – altrettanto affettuosamente – studentesse e studenti. “Non lo so fare, non riesco”, mi dicevano, “e allora sai cosa devi fare? Devi usare uno strumento meraviglioso che ti permette di fare ricerche su tutto e per di più gratuitamente!” “Ah sì, come si chiama?” “Si chiama GOOGLE! Conosci GOOGLE?”

La cosa mi è forse sfuggita di mano. Una volta ho trattato con sufficienza perfino mio padre, che negli anni ’80 creò un programmino in basic per il calcolo delle sollecitazioni sulle travi, destinato ai suoi alunni, e qualche anno dopo ci ridusse in miseria per comprarsi un Macintosh Plus corredato di stampante ad aghi. “Ma come, non hai visto quell’icona?! Ma è grossa così, sta sulla destra!” “Eh ma mica si vede bene”.

La vignetta di Zerocalcare in cui sua madre, che ha le fattezze della Lady Cocca disneyana, dice “è sparito google”, era diventata l’emblema dei tempi. Tutti sembravano prigionieri di una nube di sconoscenza digitale, e la vita quotidiana diventava un bombardamento di piccoli quesiti tecnici.

Ma il sentimento di insofferenza ha presto ceduto luogo a una consapevolezza più distaccata. Mi sono reso conto di tante cose, del resto già note. Anzitutto del digital divide, cioè del fatto che molti, per varie ragioni, non hanno a disposizione computer o tablet – in questa fase spesso sequestrati dai fratelli minori – e non possono contare su una buona connessione internet. Le scuole dell’obbligo sono riuscite a fornire un certo numero di tablet, ma all’università c’è chi da un giorno all’altro si è trovato tagliato fuori dalle infrastrutture per la didattica.

E mi sono reso conto che molti ragazzi e ragazze nati intorno al 2000 si sono avvicinati al mondo digitale non attraverso il computer, ma attraverso lo smartphone. L’etichetta di “nativi digitali” nasconde una realtà più sfilacciata. Molti sono abituati all’interazione passiva e videoludica con tablet e smartphone. E molti non fanno acquisti digitali responsabili. Hanno telefonini che potrebbero generare le scenografie di un film Marvel, ma non hanno un e-book reader, necessario se si fanno studi umanistici e ci si trova a dover leggere – specialmente durante la preparazione della tesi di laurea – tonnellate di pdf. Si autoinfliggono la lettura a video, mentre un iPhone dai molti coprocessori riposa inutilizzato al loro fianco.

Il progresso è un piano inclinato, specialmente se è legato alla produzione e al consumo: l’intelligenza artificiale progredisce più rapidamente della meccanica applicata. Quando ho attaccato alla presa il primo dispositivo google home ho avuto la sensazione di aver varcato una soglia: nel giro di pochi anni avrei sentito il timbro dell’assistente vocale riempirsi di calore ed esaudire richieste sempre più complicate; ho avuto la piena certezza che un giorno non lontano la nostra civiltà farà i conti con la sua Creatura.

Il progresso è un piano inclinato, ma il senso comune ha già preso atto dei suoi vantaggi, come pure della sua inevitabilità, giustificata dai suoi vantaggi. Allora bisogna cavalcarlo. La rete non è solo il disordine incolonnato e ipnotico dello stream facebook, il susseguirsi di foto di brasati, copertine di libri, quadretti di famiglie che paiono felici, tatuaggi di Gianluca Vacchi; non è solo il ribollire costante di notizie false e vere. È uno sconfinato Bengodi. È un continente pieno di cose da trovare: da un lato, un bazaar di stranezze esotiche, un infinito album di memorabilia; dall’altro un’enciclopedia baconiana di problemi e soluzioni: un vasto e iridescente manuale Hoepli.

Bisogna, ovviamente, imparare a cercare. Chi ha vissuto il passaggio dalla biblioteca cartacea ai testi on line di solito sa distinguere il ciarpame dai testi scientifici. A occhi non allenati a distinguere le differenza – o a occhi pigri – tutto appare, però, ugualmente degno di attenzione, o ugualmente insignificante. Per non naufragare nella rete, e per superare gli inghippi che fanno tutt’uno con la vita digitale, bisogna imparare a stabilire una gerarchia di oggetti e di immagini, capire quando la discussione su un forum è sterile e quando invece promette una soluzione; quando una pagina ti può fuorviare o quando ti può servire.

È necessaria, insomma, una pedagogia diffusa della navigazione internet e della spesa digitale responsabile, sorretta dalla convinzione che la tecnologia ci ha già chiusi nel suo abbraccio. Inutile negare a noi stessi che siamo creature cibernetiche. Viviamo grazie ad appendici che potenziano la nostra memoria, che accorciano le distanze, che cooperano con noi e tra loro in modo complesso; e che proprio per questo, nel loro cammino inarrestabile verso la complessità, hanno rivelato difetti, imperfezioni. Il grande rigoglio della vita digitale, dunque, ha bisogno di giardinieri: bisogna coltivare le piante giuste, dirigerne la crescita con attenzione.

Con questo, naturalmente, non pretendo che la figura del vostro amato tecnico helpdesk si dissolva e che dalle sue ceneri sorga una schiera di periti informatici. Io stesso ricorro spesso all’aiuto di uno smanettone di livello superiore. Ci sono momenti in cui non riesco a (o non ho voglia di) risolvere un problema, non so quale sia la app giusta. Allora gli mando un audiomessaggio. Lui, che vive al di là del mare e per di più ha anche lui il suo bel da fare, lo ascolta attentamente, e mi elenca le soluzioni in lunghi e dettagliati rapporti.

Ma non dimentico che quelle sue risposte limpide sono il frutto di ricerche, esperimenti e frequentazioni eclettiche del mondo digitale: è stato utente Windows, poi utente Mac, poi utente Windows, poi di nuovo utente Mac, e ha anche meditato, in un momento di trasporto visionario, di comprarsi un Chromebook, tuffandosi a capofitto nell’ecosistema google; ha cominciato a far uso di programmi per la compilazione  automatizzata dei riferimenti bibliografici molto tempo fa, e li conosce tutti come le sue tasche.

Non dimentico che le sue risposte sono il frutto di un’esplorazione che ha fatto per la comunità degli ignari, per gli utenti pigri, per i lotofagi rintronati che ricorrono in massa a lui, ricevendo sempre spiegazioni pazienti.

Gli esprimo, dunque, tutta la mia gratitudine, e dopo una breve pausa torno a mia volta ad esplorare – anzi, a smanettare.






Commenti

  1. Tutto vero, tutto chiaro, tutto ben scritto e meglio argomentato. Ma da oriundo dell'acciaio-cemento, se non proprio del Pays vert, mi faccio mille domande (soprattutto sul discrimine tra l'essenziale e l'accessorio). E a te ne pongo una: se i nostri studenti non reputano utile l'acquisto di un kindle, non sarà forse perché non hanno mai comprato un libro?

    RispondiElimina
  2. Viva lo ZX Spectrum e i suoi soffici tastini di gomma! Viva il Commodore 64 e i suoi tastoni quadratoni e il registratore a forma di grosso uovo biomeccanico! Ho ancora nel cuore tutte le sensazioni tattili di quei meravigliosi oggetti, a più di 30 anni di distanza.
    Devo dire che mi mancano. Mi hai quasi fatto piangere...

    RispondiElimina
  3. Caro Riccardo, come sempre interessante e divertente. Grazie! Mi identifico facilmente (sempre) e serenamente (a volte) con la mamma di Zero. Vorrei a tal proposito lasciare un commento visivo ma, visto che non so come inserirlo qui (tanto per non smentirmi), pubblicherò un post su FB

    RispondiElimina
  4. Bello, Riccardo, completamente d'accordo. Io il consulente ce l'ho in casa (terzo figlio nerd) e tremo al pensiero che l'anno prossimo se ne va in Germania per la Magistrale. Lo faccio leggere agli studenti del Corso di preparazione alla Tesi?

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Riflessioni sul grigio: tenebre albe e passaggi. Con Paul Celan (Quasi un kaddish: 20 aprile 1970- 20 aprile 2020)

Il Coronavirus come scorciatoia verso l'espiazione

6 perché siamo. Considerazioni spassionate sul 6 politico