Cosa portare fuori (2)


In questa normalità inusuale rispetto le distanze. Mi muovo con cautela fra dentro e fuori, e torno sugli stessi interrogativi. Mi domando cosa portare fuori, dopo. E mi domando, adesso, se siano descrivibili le differenze nel sentire la soglia fra dentro e fuori. Nel pensare cosa portare fuori e cosa far rientrare. Di certo è concreta e visibile la differenza di condizioni sociali, personali. Il dentro può essere intollerabile se non so come mantenere me e i miei cari. Può essere intollerabile se è angusto lo spazio fisico o mentale. Se dalla finestra vedo degrado, sia dentro che fuori. Diventa necessario pensare (e cercare, o forse immaginare) un fuori molto fuori. Un altro dentro. Vorrei portare fuori il desiderio di guardare e vedere. Vorrei portare fuori e conservare dentro la mimica dei volti. Vorrei proteggere le emozioni per poterle portare fuori (appena possibile) e conservarle dentro. Per riconoscere le emozioni (e per esprimerle) abbiamo bisogno che esse attraversino il nostro corpo e il corpo di chi ci è vicino. Guardare e vedere le emozioni nei volti, nei corpi, rispecchiarci in esse, e nei corpi che le incarnano, per entrare in contatto. Non vorrei portare fuori lo schermo. Vorrei guardare e vedere i volti, i corpi, le emozioni. Annalisa che vive ad Albuquerque (simmetria di due A maiuscole) mi ha mandato un articolo del “New York Times”. Spiega in modo semplice ciò che si coglie con l’intuizione, ciò che si sapeva, ma non necessariamente applicato a questo presente. In questi giorni siamo stati sopraffatti dalla stanchezza, senza fatiche evidenti. A svigorire corpo e mente è il sovraccarico di lavoro con cui le risposte emotive filtrate dallo schermo ci costringono a misurarci. In modo conscio o inconscio, siamo impegnati in uno sforzo maggiore perché le nostre capacità di predizione e interpretazione, di ‘lettura’ dei volti e dei corpi non sono confermate da ciò che guardiamo e vediamo attraverso lo schermo. E questo può essere faticosissimo. Può farci sentire esausti dopo aver guardato e visto, semplicemente. Vorrei portare fuori la possibilità e la gioia di guardare e vedere senza fatica. Di guardare e vedere lo sguardo negli occhi di chi guardo e vedo. Lo schermo non ti guarda negli occhi. Ti vede, forse, guardando sempre (o quasi sempre) altrove. Forse è anche per questo che prevale l’esibizione, attraverso lo schermo. Per far sì che tu ti senta guardato negli occhi devo guardare un puntino insignificante. Sapere che ti guardo, ma non vederlo. Anche questo può essere faticosissimo. Anche questo può farci sentire esausti dopo aver guardato e visto, semplicemente. Vorrei disseminare in tutti i fuori la necessità di considerare le normalità, sempre al plurale, come concetti mutevoli, che si adattano ai tempi, agli sguardi. Ma queste normalità provvisorie non dovrebbero cancellare gli interrogativi. Vorrei continuare a fare domande. Vorrei conservare il bisogno di fare domande.


18 maggio 2020




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