6 perché siamo. Considerazioni spassionate sul 6 politico




di Valerio Cordiner

“Improvvisare, adattarsi, raggiungere lo scopo”, questo il breviario del buon Marine che il sergente Gunny impartisce al suo plotone nell’omonimo film eastwoodiano. Eccellente in tempi di guerra, tale viatico risulta utile anche in quelli di pace, qualora situazioni straordinarie richiedano mezzi estremi o semplicemente di fortuna.

Quindi, anche oggi; visto che siamo in guerra, o almeno così ci dicono i mezzi di informazione e le autorità preposte.

Facciamo allora che siamo in guerra. E, perché ci siamo ormai da due mesi, viviamo tappati in casa come i soldati
nelle trincee; e nel frattempo ci siamo abituati al computo serale dei decessi, alla colonna sonora delle ambulanze, al coprifuoco senza le bombe, al controllo senza alcun motivo dei documenti, a ristrettezze e privazioni di ogni genere. Anche a fare lezioni, esami e tesi – o almeno a far finta di provarci – con l’ausilio del pc e della rete.

Se poi in casa un computer non c’è, il segnale è debole e le biblioteche sono chiuse, siccome siamo in guerra, bisogna “improvvisare, adattarsi, raggiungere lo scopo”. In guerra è così, i ragazzi devono capirlo, le loro famiglie farsene una ragione. Una guerra è pur sempre una guerra e questa è una guerra per tutti.

Ma poi in guerra non ci siamo più, quando si tratta di mettere i voti…

Intendiamoci. Sono tutti promossi e non potrebbe essere altrimenti, per decenza, quieto vivere e una briciola di senno. Però, in pagella resteranno i voti, come s’affretta, zelante, a precisare la preside Azzolina, dall’alto delle sue due lauree e compresa nel suo ruolo di ministra, in risposta alle incessanti sollecitazioni a fare chiarezza su un punto che non ammette equivoci, né consente eccezioni.

È chiaro, infatti, a docenti ed alunni, genitori e opinione pubblica, che ai voti proprio non si rinuncia. Né ora, né mai e nemmeno in tempo di guerra, perché ne va del buon nome dell’istituzione scolastica, della credibilità del mestiere di insegnante, della legittima soddisfazione di esaminandi e parentado, dell’indice di gradimento del governo, della sopravvivenza stessa del nostro sistema sociale, per come esso è concepito e funziona. Almeno in teoria o nelle favolette dell’economia politica.

In astratto, pertanto, ma non nella prassi. Perché proprio non è dato intendere la ratio della divisione in voti per 10, per 30 o per 110, quando per 3, per 300 o 3000 andrebbe bene lo stesso o sarebbe egualmente incongruo. Perché, d’altronde, la competizione, a scuola come a lavoro, è dannosa e controproducente, per chi perde tempo a esercitarla, per chi la subisce suo malgrado, per l’insieme che non progredisce e invece viene rallentato dalle spinte contrarie dei competitors. Perché la stessa meritocrazia è una pia illusione o un grande imbroglio, viziata com’è in ogni ambiente da cento altri fattori esterni: psicologici, sociali, estetici, congiunturali ecc., all’atto della valutazione non meno incisivi e condizionanti dell’impegno profuso dai più meritevoli. Perché, poi, non è neppure detto che i migliori siano sempre e comunque meglio dei peggiori; e spesso il contrario, quando la moderazione e la sobrietà, nel vizio e nella virtù, nella saggezza e nella dottrina, sono di norma più proficue, per se stessi e gli altri, del genio sregolato con le sue estrose intemperanze. Perché, in ultimo, le specializzazioni non sono, alla prova dei fatti, garanzia di nulla… Di nulla di certo e di buono, come attesta con clamore la magra figura degli scienziati e della scienza in questi giorni di estremo bisogno: i primi più occupati a fissare le telecamere che a scrutare i microscopi; la seconda confusa e impotente dinanzi a un microrganismo privo di vita autonoma.

Se dunque l’urgenza irrinunciabile del voto non dipende da elementi oggettivi e non si spiega con ragioni fattuali, la si dovrà cercare altrove; e plausibilmente in quell’ideologia funzionale al nostro modo di produrre, e pertanto costitutiva del nostro modo di pensare, che ripugna ogni egalitarismo – il 6 politico compreso – in nome di presunte gerarchie naturali o di non meno fantasiose robinsonate sui meriti dell’essere nell’entità degli averi.

È quindi, senza troppi giri di parole, all’anticomunismo primario, radicato a destra e fiorente a sinistra, che dobbiamo la spontanea e corale repulsione verso questo istituto – il 6 politico – di cui il movimento studentesco fece una bandiera, in tempi in cui si apprendevano più cose (e cose più utili) scendendo tutti assieme in strada che non chiudendosi a gruppi nelle classi, o da soli in camera a studiare. E a chi avesse da ridire in proposito, consiglio vivamente di scorrere – organizzazione per organizzazione – la lista infinita di ex militanti che, magari al prezzo di repentini cambi di casacca, si sono poi trovati, per le indubbie capacità acquisite (proprio grazie alle lezioni della strada e in virtù del bistrattato 6 politico) alla guida di aziende, consorzi, enti, governi, istituzioni nazionali o sovranazionali.

Per anticomunismo, dunque, e per null’altro di serio, di logico o di comprovato, oggi e qui, anche se siamo in guerra e il frangente lo richiederebbe, il 6 politico è bandito, e restano i voti e le camere chiuse, e noi lì dentro a non imparare nulla o sempre troppo tardi.

Perché, se siamo in guerra come dicono che siamo, e per questo si elargiscono bonus alle partite IVA, prestiti alle imprese e reddito ai disoccupati, poi però in guerra non ci siamo più quando si tratta di mettere i voti. Quasi che la guerra – se di guerra si tratta – si fermasse sui banchi di scuola, anzi sul desktop di casa o sullo schermo del tablet. Luoghi indenni per miracolo al contagio del virus e agli effetti altrove deleteri della sua invisibile propagazione. Luoghi non luoghi, posti fuori dal mondo e dalla zona del conflitto, nei quali non è lecito né decente “improvvisare, adattarsi, raggiungere lo scopo”, perché è guerra ovunque ma è come se non fosse, lì dove contano esclusivamente i principi imprescrittibili e i valori universali, condivisi a destra come a sinistra, su cui si fonda il pensiero liberale, per motivare e benedire ogni sopruso e iniquità col pretesto del merito e della sua etica.

Il 6 politico no, il 6 politico mai… e nemmeno in guerra. È così e l’abbiamo capito. Ma se capissimo appena di più e un po’meglio, se lasciassimo al buon senso o a quello del ridicolo spazio di parola e di manovra, ci troveremmo invece d’accordo, con pacifica evidenza, sulla necessità e anzi sul profitto del 6 politico. Allora sarebbe il 6 politico sì, per forza di cose e per tutti senza distinzioni, come avviene per i soldi erogati a pioggia alle partite Iva, alle imprese e ai disoccupati. Il 6 politico per l’oggi, e magari per l’indomani, in vista di un’opportuna semplificazione degli esami a due sole opzioni – promosso / bocciato o, con più garbo, idoneo / inidoneo – in luogo della vana, puerile e deleteria lotteria dei voti, che, salvo smentite, non serve a nulla e significa ancor meno.

Il 6 politico per noi. Perché 6 quello che siamo e si va davvero avanti se nessuno resta indietro. E se io sono 6, lo sei anche tu, perché noi tutti siamo sulla stessa barca e sotto un cielo identico: impauriti, minacciati, distratti, affaticati, in carcere, in finestra, con pochi libri e il computer rotto, senza soldi, né gioia, né voglia, né certezze, desiderosi soltanto di dormire, dimenticare, pensare ad altro e guardare altrove. Ad esempio alla libertà, che ci manca persino più della salute.

6 soprattutto perché siamo – come ci insegnano la biologia, la storia e la religione – tutti eguali, fatti per esserlo o destinati a diventarlo: figli dello stesso sangue, della stessa terra o dello stesso Dio. Un sangue amaro, una terra desolata, un Dio nascosto e silenzioso, come non mai, da quando siamo entrati in guerra.

Ciò nonostante è primavera, tempo di esami e di fioriture; e io sono e tu 6, perché siamo ancora vivi. Ma non è detto che sia così, tra una settimana o un mese... Bisogna allora far presto e la cosa giusta. O sarà la morte, mettendoci in fila senza riguardo per i nostri meriti, a ricordarci che siamo tutti eguali. La morte, col suo bel 6 politico al termine della prova, che, però, non sa più di promozione e giunge ormai troppo tardi per insegnarci a vivere.



Commenti

  1. Il sasso è forte, Valerio, e agita le acque dello stagno.
    Ma vorrei citare il parere di una esperta professoressa di liceo in pensione, mia conoscenza di vecchia data: nelle scuole, la valutazione del percorso dello studente, il cosiddetto voto, tiene sempre in considerazione il punto di partenza e le condizioni, anche materiali, dello studio e dell'apprendimento. Non sono sicura che si tratti di anticomunismo, quanto invece di un modo per motivare gli studenti. Una motivazione che non discenda dall'arrivare primi (vedi soprattutto il modello "meritocratico" francese), ma dal sentirsi valutati, nel senso di valorizzati, uno a uno, singolarmente. Il bilanciamento tra comunità e individuo/individuazione (che passa anche dall'immagine specifica che il ragazzo riceve dal prof, non giudicante, ma con-laborante) è uno dei portati più sani della scuola. Della scuola distrutta dalla riforma Gelmini, ma già Moratti, per intenderci -
    Ecco - all'università si tiene conto, di solito, di altri parametri, in cui l'identità di chi viene a far l'esame tende spesso a sparire dietro la "performance" puntuale dell'esame. Quest'anno, vista la situazione eccezionale, si potrebbe attivare la facoltà empatica e comunitaria più propria delle valutazioni scolastiche, che significa anche attenzione a ogni persona.

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  2. Caro Valerio,
    belle le tue riflessioni, prezioso e piacevole il confronto.
    Nel pensare al momento che ci avvolge e al 6 politico che potrebbe essere ma non sarà, mi piacerebbe partire dall'inizio, dall'incontro, e non dalla fine, dall'esame.
    E tutto comincia, mi sembra, nel desiderio di trovare (o meglio ritrovare) la "diversità" del nostro lavoro e della nostra comunità, nel mostrare quotidianamente che la qualità scientifica e didattica dei corsi, anche a distanza, non è disgiunta dalla qualità umana degli incontri, dalla cura verso le singole persone, verso le loro vite, fuori e dentro le aule o lo schermo.
    E se l'obiettivo dell'apprendimento è nella relazione, allora il 6 politico si sgretola, perché è una richiesta "contro", mentre mi sembra che ciò di cui abbiamo tutti bisogno, docenti, studenti, esseri umani, sia una richiesta "con".
    E allora, in queste condizioni così inusuali e inattese, l'esame potrebbe non esserci. Al generico 6 politico, egualitario ma poco parlante, preferirei allore un'assenza di giudizio che rispecchia un'assenza di noi dalle aule fisiche e che, proprio come il 6 politico, potrebbe essere ma non sarà.
    Un abbraccio forte
    Barbara

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